John Taylor is interviewed by Grazia Calanna for the website L’EstroVerso about his first experiences of poetry, his own poetry, his translation, and his new book in Italy, Oblò (Pietre Vive Editore), translated by Marco Morello, illustrated by Caroline François-Rubino, with a postface by Franca Mancinelli.
Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?
Il mio primo ricordo di un’“esperienza poetica” è in realtà legato a un esercizio nella scuola elementare. Avevo undici anni. La nostra insegnante mi ha chiesto di memorizzare la famosa poesia di Edgar Poe, “Il corvo”, e di recitarla davanti alla classe la mattina successiva. La poesia include riferimenti a un “bust of Pallas”, un busto di Pallade-Atena. In inglese, la parola “bust” aveva connotazioni “erotiche” per me – non capivo davvero cosa intendesse Poe con questa parola – perché significa anche petto di una donna. In effetti, non ero sicuro che Poe alludesse a una statua. Mentre memorizzavo la poesia, tutto solo nella mia camera da letto, questa parola “bust” mi turbò profondamente. Avevo paura di pronunciarla di fronte ai miei compagni di classe. Così ho “corretto” la poesia di Poe sostituendo la parola “bust” con “statue”. La mattina dopo, ho recitato la “poesia corretta” e l’insegnante non ha detto nulla… Ho raccontato questo aneddoto nel mio libro Se cade la notte. Era una delle mie prime esperienze della risonanza semantica di una parola. Ho capito che una parola poteva significare più di una sola realtà. Questa improvvisa verità non mi dava una piacevole sensazione, ma al contrario era simile al disagio che mi aveva dato la parola “bust”. La mia lingua era dentro di me, ma il mondo era “fuori”: i ponti tra i due regni erano traballanti, instabili, forse illusori e, inoltre, un solo ponte doveva andare verso diverse sponde del fiume. Questa intuizione era uno dei miei primi “gaps” – uno dei miei primi “vuoti” o “interstizi”, una delle mie prime “separazioni”.
Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la tua formazione?
In altre interviste e articoli, ho evocato l’importanza per me, quando iniziavo a scrivere durante la mia adolescenza e poi durante i miei primi anni in Europa (sono arrivato in Germania dell’Ovest nel 1975, quando avevo 23 anni), di diversi poeti o autori americani ed europei. Ma restiamo alle elementari. Ricordo il misterioso impatto su di me di alcune righe molto musicali e molto romantiche di Poe (ancora una volta) nella sua poesia “Annabel Lee”. Posso recitare ancora la strofa che mi ha commosso:
I was a child and she was a child,
In this kingdom by the sea,
But we loved with a love that was more than love—
I and my Annabel Lee—
Le parole sono semplici, un bambino può capire la poesia, ma la musica ammaliante delle linee trasporta lo stesso bambino altrove, in un altro mondo oltre questo mondo tangibile o, forse, in qualche altro mondo stranamente coesistente con questo mondo. Su internet, trovo queste stesse righe, tradotte di Guido Davico Bonino:
Io fanciullo, e lei fanciulla,
in quel regno vicino al mare:
ma ci amavamo d’amore ch’era altro che amore,
io e la mia Annabel Lee—
Lo stesso anno (con l’insegnante che ama “Il corvo” di Poe), c’erano anche alcune righe della poesia più famosa di Robert Frost, “The Road Not Taken”. Questa poesia finisce così: “Two roads diverged in a wood, and I— / I took the one less traveled by, / And that has made all the difference”. [“Divergevano due strade in un bosco, ed io… / io presi la meno battuta, / e di qui tutta la differenza è venuta”, traduzione di Giovanni Giudici.] All’età di undici anni, non avevo capito tutte le profonde implicazioni di questa poesia di Frost, ma nonostante ho sentito fortemente che questa necessità di trovare il mio percorso era qualcosa di prezioso e fragile, una necessità che doveva essere mantenuta viva e protetta. Due decenni più tardi, dopo aver preso la mia “strada meno battuta”, ricorderei questa poesia di Frost quando mi sono imbattuto, in una delle lettere di Petrarca, nel tema di un “iter inceptum”. Tengo le sue parole latine su un pezzo di carta nel mio ufficio: “Interea iter inceptum sequar, non prius vie quam lucis exitum operiens”. Petrarca intende che continuerà il percorso che ha scelto di prendere e non uscirà da esso finché c’è luce. Uso quest’immagine di un “iter inceptum” – per me, anche una risoluzione incoraggiante – in una poesia scritta in omaggio a Petrarca nel mio libro Gli Arazzi dell’Apocalisse. Immagini dei percorsi appaiono costantemente nella mia scrittura. Continuo a cercarli.
Quale (e per quali ragioni) poeta e relativi i versi che non dovremmo mai dimenticare?
Ho appena citato alcuni esempi. Una riga semplice, in una poesia di Alfredo de Palchi, continua a perseguitarmi: “Guardami, dimmi, è così per te?” Riassume tutto il mistero di un’altra persona — soprattutto una persona amata — che ci sta di fronte.
Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarti alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?
È più una questione di spazio che di tempo. Non scrivo quasi mai poesie nel mio ufficio pieno di libri e di scadenze (articoli da scrivere, traduzioni da finire), ma piuttosto fuori da casa mia e specialmente mentre sto viaggiando. Soprattutto nei treni. Entro nel vagone del treno con un “progetto” nella mia mente. Dico “progetto” perché, come indica l’etimologia della parola, è qualcosa che viene lanciato di fronte a me e che cercherò di avvicinare. La semplice anticipazione di un viaggio mi dà il desiderio di scrivere anche che questo “qualcosa” di intuito o di intimidito che viene da lontano, per così dire. Mi siedo e anche se ci sono passeggeri che parlano intorno a me, di solito riesco a concentrarmi. Si tratta di prestare attenzione, ma a cosa esattamente? È difficile definirlo. Un certo stato di attenzione e di ricettività è essenziale. Alcune parole e righe sorgono in me se sono ricettivo. Le scrivo su un piccolo taccuino. Frammenti di poesie che dovrò approfondire, ma è un inizio definito se sono fortunato. Non riesco a spiegarmi perché devo essere quasi sempre al di fuori del mio ambiente più intimo per poter tornare in contatto con ciò che è più intimo dentro di me: il linguaggio poetico.
Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?
Parole che scoprono l’interstizio, il vuoto, il buco, il varco nascosto – quello che chiamo il “gap” – e che quindi forse tentano di costruire un ponte.
Quando una poesia può dirsi compiuta?
Ho citato i miei piccoli taccuini. Digito in seguito i frammenti di poesie nel mio computer e stampo i testi. Continuo a lavorare su questi frammenti, portandoli con me in viaggio, nelle sale di attesa, in un bar in cui devo aspettare l’arrivo di un amico. Dopo ogni revisione apporto di nuovo le modifiche nel computer e stampo il testo. Spesso, lo rileggo anche tardi la sera, nella mia camera da letto, sempre lontano dal mio ufficio. Dico “lontano”, ma è a soli due metri di distanza… Eppure la sento, questa camera, come uno spazio propizio a una più profonda concentrazione – una specie di comunione. Di solito correggo le poesie mentre sono sdraiato sul letto, un po’ come la tecnica freudiana usata in psicoanalisi, perché “mi leggo” meglio in questo modo e ho l’impressione di entrare più facilmente in contatto con l’inconscio e, inoltre, con l’“inconscio collettivo”, non solo con il “mio” inconscio. Roland Barthes riporta da qualche parte che Flaubert definì una tecnica simile come la sua “marinata”. In ogni caso, cerco di ascoltare il linguaggio in modo diverso, di ascoltarlo dentro di me ma anche con un orecchio orientato verso ciò che è diverso da me stesso. Perché se le mie poesie di solito derivano da un’esperienza personale, provo ad aprire il “tu” (anziché “io”) delle mie recenti poesie – come in Oblò, il libro in uscita in Italia – alle emozioni che altri vivono a causa di eventi paralleli nella propria vita. Quando ho riletto il testo dozzine di volte, in luoghi diversi e in momenti diversi, senza apportare nuove correzioni, sento subito che il lavoro è finito. C’è una specie di tensione interiore che cade. Ma devo anche rimanere molto attento a questo sentimento di rilassamento. Può essere un’illusione. Forse ho perso interesse per la poesia senza essere consapevole di un processo di stanchezza. La sorte del poeta è di vivere costantemente con una tensione interiore che deriva dalla sua scrittura in corso e che può diminuire brevemente, per poi aumentare subito dopo.
La poesia può (e se può in che modo) restituire purezza alla parola?
Stai pensando forse alla riga di T. S. Eliot nei suoi Quattro quartetti: il compito della poesia sarebbe “purificare il dialetto della tribù”, ed Eliot ovviamente ruba questa riga a Mallarmé, che nel suo “Tombeau d’Edgar Poe” – è il giorno di Poe oggi! – situa l’obiettivo della poesia come quello del dare “un sens plus pur aux mots de la tribu” [“un significato più puro alle parole della tribù”]. Sebbene “purezza” non sia davvero il mio termine, sono sensibile al concetto di una poesia che aspira a un linguaggio sempre più esatto, più giusto. Un linguaggio poetico che usa parole semplici e dirette ma che, allo stesso tempo, non è veramente il linguaggio quotidiano; invece, è qualcosa di “altro” e intimissimo e, ancora una volta, giusto. Il poeta deve lavorare molto per rendere le sue formulazioni “giuste”. È un lavoro duro “forzare, dislocare, se è necessario, il linguaggio nel significato”, come diceva Eliot. Uno dei miei modelli più importanti è il poeta svizzero Philippe Jaccottet, che traduco in inglese, perché tenta non tanto di rendere il linguaggio “puro”, attraverso la sua poesia, ma piuttosto di farlo riflettere il mondo – il mondo in tutti suoi potenziali significati interni ed esterni – nel modo più giusto e più onesto possibile. Da dove un linguaggio poetico che anche dubita, che cerca, a volte invano, perché uno dei compiti essenziali della poesia può essere anche quello di esprimere dubbi o ambiguità o fallimenti come qualità fondamentali della nostra relazione con l’esistenza, con la materia, con gli altri, con noi stessi, con l’essere. L’esempio di Jaccottet è particolarmente istruttivo quando evoca temi apparentemente astratti – ma in effetti molto tangibili quando ci avviciniamo a loro attraverso la sua scrittura – come la “soglia” (che evoca lui di tanto in tanto) tra il mondo reale e qualcos’altro “oltre” la soglia, oltre questi fatti concreti intorno di noi, qualcosa che ci sembra anche quasi concreto ma è probabilmente un’illusione. Un’illusione come forse “l’altro mondo” che mi è sembrato sorgere, quando ero un ragazzo, ogni volta che ascoltavo la poesia di Poe su Anabelle Lee. Cerco anche io di situare la mia poesia in tali “spazi intermedi”. Nel nuovo libro, Oblò, c’è il viaggio tra due luoghi stranieri, il passaggio tra luce e oscurità, l’incertezza constante, il movimento che indurrà un cambiamento fondamentale.
Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia? E, ancora, assodata la difficoltà di riconsegnare un testo equivalente all’originale, cosa bisogna fare prima di tradurre una poesia? È realmente possibile tradurre o è più corretto parlare di riscrittura?
Ho tradotto molti poeti francesi e tre poeti italiani: Lorenzo Calogero, Alfredo de Palchi e ora Franca Mancinelli. La mia esperienza mi ha insegnato che non esiste una teoria della traduzione che possa essere applicata sistematicamente. Ogni poeta, in effetti ogni poesia, ha una sorta di logica interiore, una sensibilità sottostante, una voce personale che può essere sottile e persino quasi nascosta – un sussurro distintivo –, uno scopo o un “progetto” implicito che forse non sarà interamente realizzato. Il compito del traduttore è di essere abbastanza paziente per riconoscere pienamente questa “altra poetica”, in tutti i suoi aspetti, e accoglierla con benevolenza e ospitalità, con affetto. Personalmente, sono grato all’alterità. Se ho un orientamento generale, come traduttore, è tradurre il più vicino possibile all’originale, avvicinarmi il più vicino possibile a ciò che è altro. Mi riferisco in particolare alla semantica. Non credo nelle “interpretazioni libere” o “adattamenti”, a meno che non siano presentate come tali per il traduttore. A volte un sostantivo nella poesia straniera deve diventare un aggettivo o un verbo nella mia lingua, a volte una costruzione sintattica nell’originale deve essere invertita nella traduzione, forse devo aggiungere una virgola o non aggiungerne una, può capitare che una parola inglese sia troppo debole per la parola italiana o francese ma deve essere usata nonostante questa debolezza – ma il mio obiettivo è creare la stessa immagine, un’emozione simile e aprire la stessa porta a ciò che non può essere detto e che è probabilmente l’elemento più importante della poesia, almeno per la maggior parte dei poeti che ho scelto di tradurre. A questo proposito, la mia recente esperienza di traduzione della poesia e della prosa di Franca Mancinelli è eccezionalmente stimolante. Quando ci siamo incontrati per caso in un festival a Lubiana e ci siamo scambiati libri, e idee nelle nostre conversazioni, ci siamo resi conto che avevamo in comune alcuni temi psicologici, filosofici e spirituali. Abbiamo scoperto che eravamo entrambi interessati al frammento, stilisticamente, perché spesso sembra riflettere, in modo più giusto, un’esperienza cruciale che rimane presente nella vita, anni più tardi: un’esperienza che ha bordi spezzati, taglienti, per così dire. Abbiamo lavorato e continuiamo a lavorare molto da vicino, tramite innumerevoli mail, sulle mie traduzioni dei suoi testi, cercando di avvicinare il mio inglese il più possibile al suo italiano, ma preservando la naturalezza della versione inglese. Discutiamo di ogni virgola e di ogni enjambement! E già con il nostro primo progetto, mentre lavoravamo sulla traduzione del suo Libretto di transito (che è apparso in inglese subito dopo la sua uscita in italiano), abbiamo imparato che avevamo un altro tema importante in comune: la fonte della poesia proveniente da “faglie” o “fratture”, come le chiama Franca, o da “gaps”, come tendo io a vederle nella mia poesia. Di conseguenza, una poetica orientata allo stesso modo verso il riconoscimento di queste fratture, di questi vuoti, di questi interstizi e quindi verso la possibilità di colmarli, guarirli, attraversarli.
Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?
Dopo gli altri autori che ho già citato, posso aggiungere una frase da una lettera personale inviata a me da Louis Calaferte, uno scrittore francese (di origine italiana: è nato a Torino). Verso la fine della sua vita – è morto nel 1994 all’età di 66 anni –, mi ha scritto una lettera che concludeva con questo “ordine”: “Quant à vous, écrivez”. [“Per quanto riguarda voi, scrivete”.] Quando mi scoraggio, penso a questa frase e a Louis Calaferte, a cui sono piaciuti i miei primi due libri nelle loro traduzioni in francese, e che mi ha incoraggiato a continuare. Come segno della mia gratitudine, ho tradotto uno dei suoi libri postumi, Le sang violet de l’améthyste [Il sangue viola dell’ametista], che getta una luce chiarente sugli altri suoi libri.
Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori a scegliere una tua poesia dal libro Oblò, che presto apparirà in Italia nella traduzione di Marco Morello, con una postfazione di Franca Mancinelli, e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
La gestazione di tutte le poesie di Oblò fu in qualche modo diversa dal mio modo di scrivere la poesia. Il libro è stato concepito come un progetto di collaborazione tra me e l’artista Caroline François-Rubino. Amici in comune ci hanno permesso di “incontrarci” via Facebook e poi di incontrarci “nella vita reale” in una serata letteraria parigina durante la quale ho tenuto una conferenza su Hölderlin. Avevo già visto il suo sito con i suoi disegni e dipinti, lei aveva letto alcuni dei miei scritti. Più tardi, durante un secondo incontro breve, al Marché de la Poésie di Parigi, abbiamo organizzato un esperimento senza sapere quali sarebbero i risultati, anche se ci sarebbero risultati. Le ho dato una sequenza inedita di brevi frammenti di prosa chiamata Drink from the Source [Bevi alla fonte], scritti nel 2008, e lei mi ha indicato, sul suo sito web, una sequenza di dipinti intitolata Oblò. L’idea era di vedere se poteva rispondere lei ai miei testi, dipingendo, e se potevo rispondere io ai suoi dipinti, scrivendo. La mia sequenza evoca escursioni a piedi negli alti pascoli delle Alpi. La sua sequenza di dipinti evoca oblò dalla casa di suo fratello in Grecia e un viaggio in traghetto anche in Grecia. Quando ho visto i suoi dipinti, ho immediatamente ricordato con emozione il mio viaggio in traghetto, tra il porto del Pireo e l’isola di Samo, nell’estate del 1976. Per me questo viaggio fu decisivo, perché, mentre ero a bordo e osservavo – attraverso un oblò – i giochi di luce sulle onde e poi, gradualmente, l’arrivo del crepuscolo e dell’oscurità totale, ho deciso di rimanere in Europa e non di tornare negli Stati Uniti e agli studi matematici che mi attendevano. Invece di alcune settimane in vacanza, ho finito par vivere a Samo per un anno e ho iniziato a scrivere più seriamente che mai. Nell’estate del 2014, io e mia moglie eravamo di nuovo nel villaggio di Bessans, nelle Alpi della Savoia, appena dopo questo secondo incontro dove Caroline mi aveva mostrato i suoi dipinti dalla sua sequenza Oblò. Bessans è il villaggio dove avevo scritto i miei frammenti di Drink from the Source sei anni fa, nel 2008. Mia moglie ed io conoscevamo bene il villaggio, perché lì avevamo soggiornato spesso. Era già un simbolo positivo, un polo positivo, in alcuni dei miei scritti, come Gli Arrazzi dell’Apocalisse. Pero, quell’estate, nel 2014, pioveva continuamente durante il nostro soggiorno. Le escursioni in alta montagna erano impossibili. Quindi ho scritto le poesie di Oblò, nel piccolo appartamento in affitto, guardando il pdf dei dipinti di Caroline e ricordando il mio viaggio in traghetto in Grecia quattro decenni prima. Fuori dalla finestra dell’appartamento, attraverso la pioggia, riuscivo a malapena a distinguere le montagne, i loro pendii nascosti, quindi non così nascosti, dalla nebbia. Nei miei ricordi del viaggio in traghetto in Grecia, era lo stesso, con le isole quasi indistinte nel crepuscolo mentre il traghetto passava accanto a loro. In entrambe le situazioni, quarant’anni prima e poi mentre cercavo di scrivere le poesie di Oblò, avevo un forte senso di due regni – il mondo interiore e il mondo esteriore – separati da una finestra, da un oblò. Ho scritto ad esempio:
scurire questo lato
così l’altro lato
trattiene
più a lungo
la luce
[. . .]
mare agitato
dall’altro lato
da questo lato
dell’oblò
Nello stesso periodo, Caroline, dall’altra parte della Francia, ha realizzato una serie di dipinti per accompagnare i frammenti di Drink from the Source. Entrambe le sequenze furono infine pubblicate come bellissimi libri bilingui in Francia, da due diversi editori, e come due parte di un solo volume più grande, Grassy Stairways [Scalinate erbose], in America. In una poesia di Oblò, inserisco un’allusione nascosta al villaggio di Bessans e a questa settimana di intensa creatività, evocando nel stesso tempo un oblò. Svelo ora quest’allusione, tra due altri poesie della sequenza:
contro il sonno
tu sbirci fuori
il cerchio ceruleo
circondato
dal blu di mezzanotte
*
questi oblò
questa montagna
sulla quale li ricordi
grigia pioviggine
sui pendii
sul mare
*
stivare possibilità
sotto
la prospettiva
Ti ho detto che la gestazione di questa sequenza era diversa. In realtà, anche per scrivere questo nuovo libro, Oblò, era necessario trovarmi in un altro spazio, in altre circostanze, per affondare in un ricordo cruciale, in un evento che quattro decenni fa mi aveva cambiato la vita, una decisione che mi aveva permesso di prendere questa “strada meno battuta” che la poesia di Robert Frost mi ha sussurrato all’orecchio, in mezzo al rumore della classe, un giorno a Des Moines del 1963.
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