John Taylor’s Oblò (Pietre Vive Editore) has been reviewed by Rosa Pierno in the magazine Menabò:
“Oblò” di John Taylor, con disegni di Caroline François-Rubino, Pietre vive Edizioni, 2019
È possibile spingere l’osservazione oltre il punto in cui non si distingue più nulla? Conosciamo bene i limiti dello sguardo e li accettiamo senza indagare la soglia tra visibile e invisibile. È questo il luogo naturale, però, in cui è in agguato l’ossimoro. Ecco, dunque, che rapide creste marine, nel crepuscolo, vengono equiparate, come se fosse un’azione effettivamente perseguibile, a: “versi / scarabocchiati / con l’acqua / sull’acqua”. Vedere bene, qui, significa vedere tutto, anche l’impossibile. È di tutta evidenza che John Taylor, nel suo poemetto “Oblò”, voglia giungere in ambito metafisico, utilizzando oggetti. Tenta la definizione di entità astratte, mentre il suo sguardo scivola sulle cose che gli sono più prossime. Per tal cagione, si sente subito il cozzo dell’azione vietata, ci si accorge del passaggio ostruito e si direbbe sia questo l’interesse prioritario di un così avvertito autore. Sceglie un oblò attraverso cui guardare perché “è l’ultima forma rimasta” nella notte. Al modo in cui lavorerebbe un artista, Taylor cerca di individuare ombre più lievi in quelle più pesanti, le notturne. Ma è un poeta, colui che finge di dipingere, e le parole al pari di ciò che è visibile perdono la loro precisione semantica, si confondono. Il parallelismo tra visione e capacità di comunicare un senso è preso al laccio. Si spalanca dinanzi ai nostri occhi il problema dell’indefinito e dei concetti veicolati dalla parole: quando diciamo isola non intendiamo un’isola particolare, ma un concetto generale e forse questa potrebbe essere la porta per un comodo ingresso nell’ambito metafisico: “quest’isola / o un’altra”. Siamo al centro dei problemi filosofici della visione che hanno assediato schiere di filosofi: la luce, i colori, la trasparenza; compresi Dante e Leonardo. A che cosa si giunge, maneggiando le parole? Può essere precisa una sfocatura? E se qualcosa è “fuori”, quanto è “più in là”? Il blu potrebbe essere dato dal ricordo, non, dunque, un colore reale. Si può credere di vedere una montagna, il mare con la sua foschia, persino “quadrare il cerchio / dell’oblò”. Si resta, non di meno, nell’ambito di un avvicinamento “differenziale”, presunto, mai definitivamente raggiunto. Lì dove non si percepisce più nulla, si dà la stura alla fantasia. Il salto è del tutto apparente, così come lo sono le cesure del verso: sorge, infatti, tra parola e parola, una continuità non solubile. Tutto quello che si può evincere dall’osservazione è un ritornare a sé, alla sorgente che produce la visione. Il paradosso è la chiave di tale continuità, il suo motore, e forse è l’unico legame capace di saldare in modo ciò che fluisce, ciò che è privo di certi e saldi limiti, poiché nel linguaggio tutto è preso in una rete a trame larghe, in cui lo sguardo non trova fondamento. Solo l’ossimoro lo fornisce. Il mondo che crediamo di vedere, che pensiamo di poter descrivere è in realtà inconoscibile. Eppure ci sono parole fissate sulla carta: “trovare le parole / “un punto focale”; parole che valgano quanto una pesca miracolosa. Quel punto focale che gli acquarelli di Caroline François-Rubino, costellanti il piccolo poema, individuano per mostrarne il coagularsi e l’immediato dissolversi. L’artificio del mezzo è altrettanto ‘visibile’: l’acquerello, dapprima liquido, si espande, e poi si ritrae in pozze che delineano una scala che va dalla trasparenza all’opacità, e ha già asservito la materia alla sola luce. Le apparenze assumono un ruolo preponderante rispetto al reale. Che certe macchie ricordino isole, baie, o notti luminose, è un secondario riflesso. L’artista sospinge il pigmento nell’acqua seguendo le spire della sua immaginazione e, ancora, col pennello, cancella. È con il colore che François-Rubino realizza la decifrabilità di ciò che si vede nell’oblò, ristabilendo senza rilievi né contorni, senza forme fisse, la generalità, l’indicazione di qualcosa che non è mai il paesaggio, ma passaggio. Le forme sono pura funzione del colore, il quale si libera dalla linea e dalla sostanza, esponendo un esemplare dialogo tra due forme espressive irriducibili l’una all’altra: visivo e verbale hanno confini sostanziali, eppure, percorrono linee parallele e si incrociano in un’oblò.
© Rosa Pierno
Is it possible to push observation beyond the point at which nothing stands out any longer? We are well aware of the limits of looking and accept them without investigating the threshold between visible and invisible. This is the natural place, however, where the oxymoron lurks. It is here, for example, that the quick crests of the waves, in the twilight, are equated, as if it were an action that can actually be pursued, with “lines / scribbled / with water / on water.” Seeing well here means seeing everything, even the impossible. It is quite clear that John Taylor, in his poetic sequence “Portholes,” wants to reach the metaphysical sphere, using objects. He tries to define abstract entities, while his gaze skims across the things closest to him. For this reason, one immediately feels the clash of the prohibited action; ones notices the obstructed passage and this seems to be the primary concern of such a discerning author.
He chooses a porthole to look through because “it is the last remaining form” in the night. Like an artist at work, Taylor tries to identify lighter shadows in the heavier, nocturnal ones. But he is a poet, that is, one who pretends to paint; and words, like what is visible, lose their semantic precision, merge. The parallelism between vision and the ability to communicate a meaning is caught in the noose. The problem of the indefinite and of the concepts conveyed by words opens up before our eyes: when we say “island” we do not mean a particular island, but a general concept and perhaps this could be the door providing a handy entrance into the metaphysical sphere: “this island / or another.”
We are at the center of the philosophical problems of vision that have besieged ranks of philosophers, including Dante and Leonardo: light, colors, transparency. What does one reach by handling words? Can a blur be precise? And if something is “outside,” how far is it “off to the side”? The blue could be given by memory, and, therefore, is not a real color. One can believe that one is seeing a mountain, the sea with its mist, even “squaring the circle / of the porthole.” We remain, nevertheless, in the context of an alleged “differential” approach, never definitively achieved. Where nothing is perceived anymore, fantasy is given an opening. The leap is completely apparent, as are the caesuras of the poem: in fact, between word and word, an insoluble continuity emerges.
All that can be deduced from observation is a return to oneself, to the source that produces the vision. Paradox is the key to such continuity, its driving force, and perhaps it is the only link capable of connecting, in a flowing manner, that which is devoid of firm and certain limits, since in language everything is taken up in a loosely meshed network in which looking has no foundation. Only the oxymoron provides it. The world that we believe we are seeing, that we think we can describe, is actually unknowable. Yet there are words fixed on paper: “finding words / a focus”—words that are worth as much as a miraculous catch of fish.
That focus is offered by Caroline François-Rubino’s watercolors which constellate the short poems, singling them out and showing their coalescence and immediate dissolution. The artifice of the medium is just as “visible”: the watercolor, at first liquid, expands, and then retracts into pools that define a scale running from transparency to opacity, and it has already subjugated the material in mere light. Appearances take a preponderant role with respect to reality. That certain spots resemble islands, bays, or bright nights, is a secondary reflection. The artist pushes the pigment into the water following the whims of her imagination and, again, with the brush, erases.
It is with the color that François-Rubino produces the decipherability of what is seen in the porthole, restoring—without reliefs or contours, without fixed forms—the generality, the indication of something that is never landscape, but passage. The forms are a pure function of color, which frees itself from line and substance, bringing out an exemplary dialogue between two expressive forms that are irreducible to each other: the visual and the verbal have substantial boundaries, yet they run in parallel lines and cross each other in a porthole.
(translation © John Taylor)
Menabò, No. 4, 2020
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