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Alessandro Canzian écrit sur Oblò (Hublots, Portholes) pour Laboratori Poesia

Alessandro Canzian a écrit un superbe article sur le site littéraire italien Laboratori Poesia sur Oblò (Pietre Vive, Editore), la traduction italienne (par Marco Morello) de Portholes (inclu dans le recueil  Grassy Stairways [The MadHat Press], et aussi traduit aussi en français comme Hublots et en serbe comme OKHA):

Pietre Vive Edizioni, ormai noto editore di piccole chicche letterarie che da anni non passano inosservate (si ricordano Fuori fuoco di Mimmo Pastore, Approssimazioni e poi Approssimazioni e Convergenze di Sergio Pasquandrea, Nulla sanno le parole di Daniela Gentile, Il rigo tra i rami del sambuco di Emilia Barbato) pubblica con la tradizionale commistione di poesia e arte Oblò / Portholes di John Taylor.

Libro che lascia in prima battuta stupefatti per la rarefazione del verso che l’Editore, in maniera intelligente, sfrutta gestendo il testo a fronte nella medesima pagina:

Oblò / Portholes - John Taylor 1

Operazione riuscita che permette un immediato confronto tra le versioni, anche quando non sono perfettamente coincidenti:

Oblò / Portholes - John Taylor 2

L’opera, che ha come coordinate temporali (indicate a fine testo) Samos, August 1976 – Bessans, August 2014 si sviluppa nella forma di scatti, di sguardi attraverso un oblò che, caratterizzato dall’essere punto di osservazione in mare, sposta continuamente l’incertezza, la precarietà del passaggio tra notte/giorno buio/luce in un piano esistenziale che domanda la propria esistenza, senza nemmeno mai completare la domanda.

 

Franca Mancinelli, in postfazione, scrive:

“Non sappiamo qual è l’inizio e la meta del viaggio, siamo nell’aperto del mare, con l’orizzonte come unica linea certa, mentre ogni altra immagine affiora e torna nell’indistinto. Come lo spazio, anche il tempo è indefinito, si determina soltanto nel dialogo tra luce e ombra, nel prevalere dell’una sull’altra. Quasi scrivendo en plein air, secondo la lezione impressionista, John Taylor compone questi frammenti come intermittenze tra vedere e visione. La cornice è quella circolare di un oblò, costantemente presente fino a divenire un confine interiore, «l’ultima forma rimasta» nell’oscurità, ciò che neanche la notte più fonda può dissolvere. […] È un viaggio fatto di azioni dello sguardo: cambiamenti di prospettiva, una messa a fuoco della realtà e il suo sfocarsi, tracce di immagini che entrano ed escono dal campo visuale; e avvenimenti minimi che lo sguardo registra, ai confini del dissolvimento: voli di uccelli sconosciuti, il sorgere di un’isola all’orizzonte, una nave vicina, delfini come strati di nuvole, voci sul ponte. Ogni cosa avviene dentro il mutare costante degli elementi che restano sul bianco della pagina come su una lastra fotografica estratta dal fissaggio prima che i contorni siano definiti. Il sopraggiungere della foschia, il sole che sbianca, la pioggia sottile, le folate del vento, il sale e la sabbia sul vetro, la marea che sale, guidano il lettore dentro a un viaggio nel movimento della materia, nelle sue metamorfosi e passaggi di stato, con il ritmo di versi brevi che cullano come nel dondolio del mare. È una poesia fenomenica, che si attiene alle percezioni, e che attraverso queste conduce in una meditazione sulla sostanza della vita, in un sentire quasi presocratico, che riconosce nel trascorrere il principio e la meta di ogni consistere, in una circolarità che è la stessa in cui è racchiuso questo poemetto, dal calare del buio al sorgere della luce.”

 

Sono graffi, questi versi, più simili a carezze che a dolori. Prospettive astratte che proprio perché in mare diventano concrete, diventano verticalità, linee, orizzonti. Sono anche voci che si cerca d’udire e comprendere. Fino alla consapevolezza della ritualità dell’essere al mondo che obbliga al ritorno nella notte che si riteneva superata.

L’alba non è definitiva, le luci non sono definitive, il mondo stesso (sia nella sua oscurità sia nella sua illuminazione) è frammentato e l’osservatore può solo rimanere affascinato da quanto vede, cercare di capire e carpire, rimanere confuso, avvicinarsi e allontanarsi dall’oblò stesso attraverso il quale (suo strumento per rapportarsi all’esterno, al mondo) ha un contatto con l’esterno.

Viene detto quadrare il cerchio / dell’oblò / per sempre / tra / le possibilità come auspicio non risolto. L’acqua sempre meno luminosa (come viene reiterato all’inizio) diventa in chiusa l’albeggiare / sempre meno illuminato. Indicando una coincidenza del tutto (acqua, mondo, luce, alba, giorno) che altro non suggerisce che una critica all’io.

Perché in questo libro non viene raccontata la frammentazione del mondo esterno ma quella del mondo interno, dell’osservatore stesso, che si relaziona alla propria frammetarietà (arretrare / oppure alitare / sul vetro / che ti sta di fronte) misurando la distanza e l’esistenza stessa dell’oblò.

 

Perché l’oblò è strumento d’osservazione ma anche specchio di sé, del proprio limite (in questo indovinatissima la gestione grafica del testo a fronte, speculare). Anche quando si cerca d’andare oltre l’oblò stesso (apri l’oblò / la tua mano nel vento / buona come qualsiasi occhio / per quel che va visto / nessun pensiero / della fine / tranne questo). L’oblò in Taylor è in qualche modo la consapevolezza che non abbiamo un rapporto diretto con la realtà, una realtà liquida, altalenante come le onde. Una realtà anche colorata, ma sempre in bilico tra oscurità e illuminazioni.

Una realtà che esiste, ma che forse noi fatichiamo a sostenere.

Alessandro Canzian

 

Oblò, Pietre Vive Editore, 2019

Oblò, Pietre Vive Editore, 2019

 

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